domenica 25 maggio 2014

I motociclisti non sono tutti delle bestie...



Di motociclisti ne esistono di tutti i tipi. Questo perché sono persone e di persone ne esistono di tutti i tipi. Essendo quindi i motociclisti un sottoinsieme della popolazione che forma questa società, è normale che ognuno esprima differenti modi di fare motociclismo. Il punto però è un altro, ovvero che spesso i motociclisti vengono scambiati per una categoria di persone poco attente al mondo che li circonda. Meno avvezzi alla cultura di altre categorie, ma interessati a birra, musica rock, a dare del "gran gas" laddove la loro massima curiosità artistica si riduce a contemplare un pistone, magari un po' vissuto e quindi interessante. Insomma mi è stato fatto notare che scrivere per i motociclisti sia ambizioso, visto che generalmente chi possiede un cuore motociclistico non è un "fenomeno". Niente di più sbagliato! E' semplicistico e riduttivo credere che siano più o meno tutti una massa di ignoranti. Incapaci di fare una "O" con un bicchiere, se estratti dal contesto moto, motoraduni e via dicendo. Certo esisterà anche questo tipo di individuo, ma stiamo già andando in un ambito sociale più vasto e non ci compete. Restando quindi sull'argomento voglio fare esempi che la storia ci ha fornito, su come illustri personaggi (e in questo caso illustri significa sminuire) siano stati tra le varie cose dei motociclisti rispettabili.


Ernesto Guevara, meglio conosciuto come "Che", prima di essere sul fronte rivoluzionario a tempo pieno è noto per aver peregrinato in America Latina. Nel 1951, con l'amico Alberto Granado, partì in sella ad una Norton Model 18, 500 cc del 1939 , si chiamava la "Poderosa II". Il viaggio non terminò a Santiago, dove la moto abbandonò i due giovani vagabondi, o meglio loro l'abbandonarono perché non più in grado di marciare dopo vari incidenti stupidi e guasti. Resta comunque che il loro viaggio iniziò in sella ad una motocicletta, il mezzo di locomozione terrestre che più di tutti riesce a catalizzare l'idea di libertà sulla strada. Alla scoperta di un continente vasto come il Sudamerica, dove il clima e i paesaggi sono molti e diversi, la moto è stata un comun denominatore oltre alla lingua castigliana, oltre al fatto che ancora oggi si può rileggere il resoconto dei due amici nel libro "Latinoamericana" da cui il film "I diari della motocicletta" appunto.


Giovannino Guareschi, è stato un grande giornalista italiano e uno degli scrittori del Novecento più affascinanti e controversi. La sua vita è  stata segnata da fatti politici e legali connessi alla sua attività di vignettista, direttore di giornale, di scrittore. La saga di "Don Camillo" lo ha reso famoso ai più, e per la serie cinematografica lo ricordiamo tutti, ma molti non considerano che da buon emiliano fosse un motociclista appassionato.


Il mezzo che ha rimesso in piedi, o meglio dire in strada, gli italiani dopo l'ultima guerra, era una presenza nella vita dell'autore. Nel corso della sua vita viene infatti ritratto su moto di vari modelli e nelle pellicole del suo più grande successo, il sindaco "Peppone" guida un sidecar su base Guzzi G.T.W., visibile al museo di Brescello. Anche in questo caso un simbolo di ribellione, un'icona come la moto trova in Guareschi un personaggio fuori dagli schemi che non teme di dire quel che pensa e di fare il proprio mestiere con intelligenza non solo letteraria.


Sir. Thomas Edward Lawrence, o se preferite Lawrence d'Arabia, ha posseduto ben sette Brough Superior SS100. Il marchio inglese è da poco riapparso dopo aver chiuso alla fine della Seconda Guerra Mondiale e ha fatto spalancare gli occhi agli avventori dell'ultimo salone di Milano. La SS100 era considerata all'epoca una vera superbike, roba da piloti con gli attributi e il polso fine. Lawrence le aveva chiamate ciascuna col nome di sovrani britannici, da Giorgio I a Giorgio VII. Purtroppo, fu in un oscuro incidente con una di queste moto che il più importante cliente della Brough Superior, perse la vita. Oltre ad aver vissuto in medioriente e in maghreb come tenente colonnello di sua Maestà Britannica e aver sognato un grande stato arabo, Lawrence d'Arabia è riuscito a lasciarci un volume grosso come un dizionario bilingue intitolato "I sette pilastri della saggezza". Sette come le sue moto.




Anche Kafka, dall'alto della sua luminosa scrittura, ha avuto una passione per la moto. All'epoca, Franz Kafka era un cittadino dell'Impero Austro-ungarico e non vi era tutta la cultura motociclistica che si poteva riscontrare già in Gran Bretagna, o negli Stati Uniti. Esistevano comunque marchi come Laurin & Klement che producevano i primi modelli sullo stile di grosse biciclettone con impiantato un propulsore a benzina supportato da un grosso telaio. Lo scrittore de "Il processo" e de "La metamorfosi" era un ragazzo come tanti che amava divertirsi, fare sport come il tennis, frequentare ragazze, e girarsene in motocicletta. Fu proprio la motocicletta che ispirò uno dei suoi racconti.




Antonio Ligabue è un altro protagonista del Novecento artistico. Considerato "pazzo", e quindi rinchiuso in manicomio a Reggio Emilia, è stato uno dei maggiori controversi pittori dell'arte mondiale. Non ci si può limitare quindi a considerarlo schizofrenico o incapace d'intendere e di volere. Non poteva essere così matto se amava ritrarsi alla guida di una rossa Guzzi, con la sua espressione che, a osservarla bene, tanto strana non era. Anzi l'amore per le moto è un segnale che forse i pazzi sono stati quelli che lo avevano internato.


Per essere più attuali, possiamo prendere in considerazione personaggi come Marco Giallini, che prima di essere un bravo attore è soprattutto, a detta sua, un motociclista. Reso famoso dalla serie "Romanzo criminale" nel tempo si è affermato sia per ruoli drammatici, che per interpretazioni più leggere ed ironiche risultando sempre all'altezza del compito. In questo periodo il cinema italiano ha in Giallini una notevole risorsa data dalla sua bravura e intelligenza. Nel contempo l'attore romano firma la rubrica "pelle dura" sulla rivista Riders, ottenendo anche qui molti consensi.


Roberto Parodi ha scritto libri grazie alla passione per le moto e i viaggi. Grazie a lui possiamo prendere la moto come una viscerale esigenza di andare finché c'è strada da percorrere, finché la lancetta ti dice che c'é benzina e finché ci sono amici che riescono a condividere con te l'esperienza, finché nel petto batte un cuore a due cilindri. Così il deserto del Sahara o le montagne tra Cina e India, l'Elefantentreffen, o il motoraduno nel tuo paese diventano la grande metafora della vita, dove l'importante non è la partenza, nè l'arrivo, ma quello che c'è in mezzo. Parodi conduce su Italia 2 "Born to ride", oltre a scrivere per i periodici Low-ride e Biker's.


Credo di poter affermare che scrivere di moto e motociclismo sia un modo di trattare un argomento che per molti è passione vera. Non è quindi vero che scrivere con un piglio leggermente letterario sia superfluo, che ci possa essere qualche punta di filosofia nel raccontare cosa accade nel mondo dei motociclisti non è sbagliato. La storia e i personaggi del nostro contesto ci dicono che i motociclisti sono anche persone profonde e con una grande sensibilità nei confronti della vita e attenti nel viverla. E' per queste persone che vale la pena scrivere e non per chi crede che la moto sia solo uno svago per cinghiali su due ruote. Il reporter televisivo Paolo Beltramo in un collegamento dal paddok di Imola durante il mondiale superbike, ha reso noto che a Forlì esiste un'associazione culturale intitolata al compianto pilota Otello Buscherini, commentando con la frase "i motociclisti non sono tutti delle bestie". E' quindi a tutti loro che dedico questo post.




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